Quando Senna vinceva con una sola marcia

27.02.2025

Sotto una pioggia battente, Ayrton Senna da Silva tagliò il traguardo e vinse finalmente il Gran Premio del Brasile. Era il 24 marzo 1991. Un giorno destinato a diventare leggenda. Un giorno in cui Ayrton superò non solo i suoi avversari, ma anche i limiti umani, conquistando la vittoria con un solo braccio funzionante e una sola marcia rimasta: la sesta.

Era già due volte campione del mondo, aveva già 27 vittorie al suo attivo, ma mancava quella che contava più di tutte: la vittoria in casa, davanti al suo popolo, sotto la bandiera verdeoro, nella sua città, per noi la più grande città italiana del mondo. Per sette lunghissimi anni, quel sogno era rimasto irraggiungibile. Quell'anno, sembrava impossibile come sempre. Ma Dio sapeva che Ayrton aveva qualcosa in più di un semplice essere umano. Doveva solo superarsi, ancora una volta, per Dio e per il suo popolo. Quella vittoria era più importante di un mondiale.

Io ero lì! ... È si "IO" ero li.
Arrivai con la Linha 9–Esmeralda do Trem Metropolitano poi a piedi (oggi esiste una stazione anche a Interlagos) un treno/metrò all'aperto lungo il fiume Pinheiros, un viaggio impossibile nei nostri circuiti italiani. Grazie a Nelson Shincariol proprietario della maggior fabbrica di birra all'epoca e al CIO della Minardi, Gianluca, riuscii a farmi strada fino a lui. Solo una domanda, una sola possibilità di avvicinarmi. Ayrton era distrutto. Il suo braccio destro non rispondeva più, pietrificato dalla tensione, dallo sforzo sovrumano di tenere in pista quella macchina McLaren maledetta con un solo cambio rimasto.

Il circuito di Interlagos, con le sue curve veloci, era stato la sua unica salvezza. Se ci fossero stati più tornanti, non ce l'avrebbe mai fatta. Quando tagliò il traguardo, l'urlo liberatorio "Puta que pariu!" risuonò sopra il rombo dei motori e sopra il boato di tutto il Brasile. Quelle parole, prima considerate volgari, divennero il grido di vittoria di un eroe nazionale.

Quelli erano anni fantastici. Sognavo Ayrton alla Ferrari, come lui stesso aveva sognato, come Enzo Ferrari anni prima. Ma quel sogno non si realizzò mai. In quella maledetta giornata a Imola, nella casa della Ferrari, se ne andò per sempre, correndo verso il cielo. Lassù, avrebbe ritrovato Ronnie Peterson, Riccardo Paletti, Patrick Depailler, Gilles Villeneuve, Roland Ratzenberger ed Elio De Angelis. Forse, Enzo Ferrari stesso, scomparso il 14 agosto 1988, lo aveva chiamato a sé. Perché senza Ayrton, la Formula 1 non avrebbe più avuto senso.

Ma quel giorno a San Paolo, nella terra della "garoa" (la pioggia fine e incessante), Ayrton si presentò in conferenza stampa con gli occhi lucidi e il viso segnato dalla fatica. Disse con la voce rotta dall'emozione:
"Prima di cominciare, dovete sapere qualcosa su di me: dopo Dio e la Formula 1, la cosa più importante della mia vita è il mio popolo. La mia gente. I miei fratelli brasiliani."

Quando toccò a me, emozionato come mai prima d'allora, gli feci una domanda in italiano. Lui rispose subito, con un accento leggermente emiliano, quasi come se l'avesse imparato da Enzo stesso, pur non avendo mai guidato per Maranello:
"Ma cosa hai fatto, cosaaa?"
Mi sentii uno stupido. Avevo mostrato la mia emozione, il mio tifo, cosa che un giornalista non dovrebbe mai fare. Ma lui, con un sorriso, aggiunse:
"Non lo so, doveva essere così. Dovevo soffrire e ho sofferto. È bellissimo vedere che anche voi siete emozionati."

Poi concluse in portoghese:
"Cara, estou mais feliz do que nunca, o bigode estava a caminho, mas eu consegui, meu braço está destruído, mas eu consegui."
("Amico, sono felice come non mai, i baffone (Nigel Mansell ndr) stavano per arrivare, ma ce l'ho fatta, il mio braccio è distrutto, ma ce l'ho fatta.")

Quel "cara" - "amico in italiano" - mi colpì dritto al cuore. In quel momento tutto il Brasile era suo amico. Tutto il mondo era lì, con lui, ad esultare per quella vittoria impossibile.

In Brasile avevo già intervistato Pelé, avrei intervistato Schumacher, Ronaldo il Fenomeno, Kaká, Leonardo, Cafù. Ma mai avrei provato la stessa emozione di quel giorno con Ayrton. Mai avrei pianto come quando, il 4 maggio 1994, a San Paolo, entrai nel Palazzo dell'Assemblea Legislativa dove era stata allestita la sua camera ardente.
Era lì, davanti a me, immobile. Un uomo che aveva sfidato la morte mille volte. Un uomo che aveva portato un intero paese sulle sue spalle, che aveva fatto sventolare la bandiera brasiliana in tutto il mondo. Un uomo che aveva vinto un Gran Premio con un solo braccio e una sola marcia.

Il Brasile e il mondo non dimenticheranno mai Ayrton Senna.
31 anni sono passati, ma io scelgo di ricordarlo quel 24 marzo 1991, sotto la pioggia di Interlagos, quando Ayrton Senna do Brasil vinse per il suo popolo, per Dio, e per tutti noi. Con un solo braccio. Con una sola marcia. Con un cuore che batteva per un intero paese.

Andrea Ruggei

L'avrei potuto scrivere il 21 marzo quando è nato o il 24 marzo quando ha fatto quest'impresa o il primo maggio quando è morto.

Ma Ayrton non ha una data da commemorare Ayrton è per sempre.

Andrea Ruggeri